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venerdì 12 luglio 2013

Luce, terza parte

 
Mi domando se in effetti tutto venga contagiato dalla mia esperienza, dai miei desideri, da quello che ritengo essere il mio destino. Vedo un uomo anziano ed egli è logicamente connesso alle pratiche della clinica di fronte all'albergo dove soggiorniamo. Perché è in evidente difficoltà? Perché viene amorosamente custodito da una creatura così più giovane di lui? Perché potrei essere lì per la stessa ragione?
Guardiamo il mondo come se tutte le vicende che in esso avvengono fossero parte della nostra autobiografia, come se nulla potesse sorprenderci davvero. L'entità del nostro stupore è direttamente proporzionale al tempo della nostra capacità di prevederlo: più breve sarà, più grande avvertiremo la meraviglia, o lo sgomento, o l'orrore. Ma quel tempo resterà sempre, per quanto microscopico, quasi innavertibile. Prevediamo, instancabili, mal tollerando il caso che si frappone così spesso fra noi e le nostre previsioni. Facciamo progetti, a breve, medio e lungo termine, come se questo gesto avesse un senso. È probabilmente la nostra mortalità che ci spinge a ricercare una qualunque capacità d'incidere sul reale. Sappiamo bene qual'è la fine della storia. Crediamo, quindi, di poter influenzare lo svolgimento della trama.
Forse ci riusciamo, penso alzando di nuovo gli occhi verso la ragazza che ha fatto appoggiare al tavolo il vecchio e che prudentemente discosta la sedia per farlo accomodare. Forse è la cura che adoperiamo nei confronti degli altri, di chi-non-è-noi, il nostro tentativo di appropriarci di un destino tanto imperscrutabile.
Il vecchio si siede, sorretto sotto le ascelle dalle mani della giovane donna. Solo ora comprendo, dal tremare del suo corpo nello sforzo, quanto lei sia fragile, molto più dell'uomo, quanto si reputi inadatta al compito e come, tuttavia, riesca a condurlo a termine. Entrambi sospirano, all'unisono, quando lui è finalmente seduto, la ragazza con maggior discrezione, per non far pesare all'uomo lo sforzo compiuto. Espirano liberati, ognuno, di un fardello comune. Dev'esser molto lunga la giornata. Un susseguirsi di ostacoli da superare per raggiungere un traguardo che tutti e due vorrebbero differire.
L'impegno nei confronti di un malato, non sorretto dalla speranza che egli guarisca, è un ben strano percorso.
Lunghi silenzi, egli o ella raccolto nei suoi pensieri, nei ricordi o nella percezione dell'accellerata decadenza del proprio corpo, e noi solleciti nel tentativo di prevedere ogni disturbo ed essere in grado, con la nostra azione, di minimizzarlo o evitarlo. Interventi che a volte riscuotono successo e più spesso sono frustrati da un lamento più alto e prolungato, da una smorfia che ci sembra non avere fine e che avvertiamo come un nostro personale fallimento. Il dolore altrui ha voce, e corpo, e ira, assale i nostri sensi e ci rende impotenti, fino alla sua cessazione, che temiamo e ci auguriamo momentanea. Se soffrirà ancora, sarà ancora vivo. L'assenza della speranza che qualcosa cambi, che la persona che stiamo curando migliori, rischia di spezzarci.
Dovremmo cercare di comprendere l'esistenza nel suo farsi istante per istante, senza una strategia, ma come una sequenza di imboscate. Dall'ultima, sappiamo con certezza che usciremo sconfitti, ma questo non può fermarci, combattiamo come se fossimo destinati a vincere. È nella felicità della sfida che possiamo restare ossessivamente solleciti. Non ti abbandonerò mai, anche se so che morirai, anche se so che posso lenire la tua sofferenza ma non cancellarla. Siamo insieme e ti terrò stretto fino all'ultimo respiro, come quel tuo cane che ho dovuto far abbattere perché dopo la tua scomparsa aveva deciso di lasciarsi morire. Quando il veleno iniettato nel suo sangue ha raggiunto la percentuale necessaria, egli si è adagiato nel mio abbraccio, quanto lentamente, ed entrambi ci siamo disciolti nella pietà per i viventi.
Mi vengono alla memoria rituali in cui gli anziani di alcune tribù si allontanano, quando sentono vicina la fine, verso la foresta, o il mare, o il monte dove hanno trascorso la propria esistenza. Lontano da quello che hanno amato, odiato, costruito, come se l'accoglienza della natura contro la quale hanno sempre lottato fosse l'unica meritevole delle loro spoglie. Lontani dagli uomini e dalle donne della loro vita. Preferiscono essere ricordati di spalle, mentre si avviano verso la fine.
Mi alzo bruscamente ed esco avvertendo lo sguardo del vecchio su di me. Ma non sono così bravo, mi volto sulla porta per un'ultima volta. È invece la ragazza che mi guarda, aggrottata in un muto rimprovero.
No, mi ha chiesto aiuto, ma non ho fatto in tempo a capirlo.
 

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