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venerdì 5 luglio 2013

Luce, seconda parte

Perdonate il ritardo, riaccadrà, ma è un racconto difficile, complesso, che mi richiede una grande concentrazione. Spero di essere in grado di terminarlo.
 
Non mi sembra di averla vista entrare. Quindi, quando la trovo seduta al tavolo accanto alla grande vetrata sulla strada ho l'impressione sia apparsa. Non l'ho vista sulla porta della sala della colazione, guardare incerta e azzurra scegliere il miglior posto per iniziare la giornata, non l'ho seguita sistemare con cura la propria sedia e quella di chi, sono sicuro, aspetta che consumi con lei il primo pasto. Marito? Fidanzato? Amica? Compagna? Non l'ho vista scegliere accuratamente i cereali, lo yogurt, delle prugne, tutti accuratamente disposti nelle piccole coppe trasparenti dinanzi a lei e al suo ospite ancora invisibile. Ha cura di qualcuno, più di quella che ha per sé.
Azzurra, è tutta azzurra, compresi i capelli abbaglianti di un biondo posticcio che riflettono il colore dell'abito leggero, non completamente fuori stagione ma decisamente prematuro. Quella che ci mostrano le grandi vetrate della sala della colazione è non più di una speranza di primavera. Guardando con attenzione è facile seguire le minuscole persone affrettarsi giù in strada con giacche, cappotti, indumenti che smentiscono l'apparente calore del sole di maggio.
Non vedo il suo viso, coperto ai miei occhi dai capelli e da una lieve curvatura della schiena. Ha delle mani lunghe e giovani che maneggiano con pensosa fermezza gli oggetti sul tavolo, variandone di continuo la disposizione. Che tutto sia pronto, è il messaggio che tenta di rivolgersi, che tutto sia perfetto per l'arrivo di.
 
Oppure non è così, è solo la perplessa incertezza di chi non ha mai una posizione decisa, una mollezza sostanziale che per un istante mi spinge a non osservarla più. La debolezza mi è insopportabile, forse perché ho trascorso l'esistenza a nascondere la mia. Finché.
Quando poso di nuovo lo sguardo su di lei, ho il tempo di vederla drizzarsi sul busto, alzarsi con grazie precipitosa e dirigersi verso l'ingresso di fianco al buffet. Un uomo anziano, con un bastone di legno lucido, si appoggia alla mostra della porta con un sorriso stanco. Respira con un lieve affanno che cerca inutilmente di nascondere.
La donna, o meglio, la ragazza, ora la vedo in viso, non ha più di venticinque anni, si affretta a porgergli l'appoggio del suo braccio per sostituire il vano della porta. L'uomo accetta con un cenno del capo. Prima di partire per la traversata della sala la guarda in viso.
Chissà cosa cerca, sulla pelle bianca e quasi trasparente di lei, sulle labbra piene e dischiuse in una piccola smorfia di sollecita apprensione. Di stupore, per quello sguardo protratto. Lui dice qualcosa, a voce bassa, lei annuisce lentamente. Partono.
Dopo due passi incerti e faticosi, l'uomo ha il tempo di sollevare lo sguardo sulla sala. Sfiora la coppia sovrappeso sulla destra, i tre ragazzi con gli zaini ai piedi del loro tavolo, si ferma su di me. Mi rivolge un cenno di saluto, rispondo con un sorriso incerto. Non credo di conoscerlo, ma non ne sono sicuro. Mi fissa per un poco, quindi riprende a camminare. La ragazza alla sua sinistra, invece, continua a sorreggerlo e a seguire attenta i suoi piedi che si trascinano sul pavimento.
Non lo conosco, non più di quanto conosca gli altri come lui: uomini e donne che sono approdati all'albergo di questo paese neutro e neutrale ad attendere di essere chiamati dalla clinica che lo fronteggia cubica e severa. La clinica dove la cura dei mali è decisa e definitiva. La clinica dove si applica con tutti i conforti della scienza medica una pratica dal nome antico e rassicurante: eutanasia.
 

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