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venerdì 15 febbraio 2013

San Valentino

Mia madre sposta la mano. Sembra un fiore. Nell'aria. Mi parla. Mi guarda. Non rispondo.
China il capo. Si volta verso la finestra. Respira forte. Appoggia la testa al vetro. Parla di nuovo.
Ascolto.
Aspetta la mia risposta. Cambio argomento.
"Non ti ho mai detto che vorrei essere un astronauta", dico. "Che vorrei stare fra le stelle a guardare come siete buffi e belli e terribili su questo pianetino che è tutto quello che avete."
"Che abbiamo", dice.
"Sì, abbiamo, vero. Distrazione, a volte non mi sento qui con voi."
Restiamo un poco zitti.
"A volte vi osservo, ed è difficile spiegare come. Non con distacco. Ma neppure con commozione. Con ammirazione. Oppure corrugo la fronte, addolorato. Sono come voi, mi dico, niente di meglio e niente di peggio."
"Lo so", dice. "L'ho sempre saputo che sei diverso. Solo io ti capisco."
Annuisco, ma non ci credo. Non credo che sappia che un giorno scriverò di questo dialogo sbilenco e mai accaduto.
 
Non ho avuto il tempo, continuo intanto a pensare. Come se fosse vero. Tempo ne ho avuto anche troppo. Non l'ho usato, non mi sono stretto dentro di me e non ho considerato che alla fine il tempo sarebbe finito.
Non ho avuto 'o genio, come diceva mio padre, la voglia di alzarmi e capire quanto era strano morire di San Valentino.
Del resto, in quale altro giorno potevi morire, mamma.
 
"È tutto il giorno che piove", dice. "Mi entra l'umido nelle ossa e mi sento bagnata fino agli occhi. È per questo che piango. È l'umidità che esce, ma non sono triste. Davvero."
China il capo verso di me, col ricatto del mezzo sorriso, stringendosi fra le sue braccia.
 
Guarda come sono triste e come sono brava a fingere di non esserlo. Per te, figlio mio. Guarda come sono triste ora che tuo padre non c'è più. Però sono brava, no?
 
Ecco cosa ha detto, davvero, senza parlare, dopo la morte di mio padre. Per mesi, per anni. Pochi, in effetti.
Non so se non volesse morire perché le piaceva la vita o perché avesse paura della morte. So che cercava con tutta se stessa di credere che avrebbe incontrato di nuovo suo marito.
 
Pensavo che non avrei più parlato di mia madre. Sapevo che la ferita della sua assenza non si sarebbe mai rimarginata ma ero certo che non ne avrei più scritto se non come metafora di quello che tutti vogliamo che ritorni e che abbiamo per sempre perduto.
Ero sicuro. Trovo già abbastanza imbarazzante parlare sempre d'amore, un'ossessione, mi dico, che mi rende un autore sempre in bilico fra profondità e melodramma, fortemente sospettato di essere banale.
Già parlo troppo dell'amore
per essere scrittore di valore
(non riesco nemmeno a evitare le rime involontarie), devo stare attento.
Lo scrittore di valore non parla di sua madre. Può raccontare le madri degli altri, solo perché, a volte, è necessario.
 
L'aver scoperto che non era perfetta non mi fa smettere di pensare a lei. La questione contiene un segreto che a volte mi sembra di intuire al lato dello sguardo, ma che è sempre inafferabile.
Era perfetta, fin quando non ho chiesto altro che l'accoglienza che mi elargiva a piene mani.
Era decisamente imperfetta, invece, con le sue piccole o grandi vigliaccherie, irresolutezze, sciatterie, egoismi.
Una gestione dei figli parziale, dispari, non egualitaria, ormai evidentemente erronea, che ha creato, dopo la sua scomparsa, dissapori, odii e la definitiva polverizzazione della famiglia. Io e mio fratello odiamo nostra sorella, riodiati. D'altro canto, io e mio fratello non ci vediamo mai.
A volte, con mio grande stupore, mi vergogno di quello che ha fatto mia madre.
Proprio per questo non smetto di pensare a lei.
 
"Se tornassi a nascere vorrei vivere in un paese in cui non piove mai", dice.
"Anch'io, mamma."
"Potremmo andarci insieme. In Australia. Mi ci porti?"
"Certo. Prima o poi ci andiamo."
 
Rimango seduto a cercare di scoprire sul suo viso la vera natura dell'infinito amore che aveva per mio padre.
Tendo l'orecchio e la sento respirare, anche se non c'è più.
 

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