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sabato 17 marzo 2012

Mentre moriva, riedizione

 

Mentre moriva non pensava che alla sua bicicletta. Verde, una Bianchi di sessant'anni prima.

Mentre moriva, solo le gomme bianche e nere, solo lo splendente manubrio, il piccolo faro tondo. È finita, pensava, devo riassumere, devo dire qualcosa a mia figlia che piange, a lei che sta qui accanto, devo lasciare un oggetto che racchiuda almeno una parte di quello che sono stato. Una parola, una frase, qualcosa. Ma devo pensarle, prima.

Niente. La bicicletta si ostinava a mostrarsi nella sala da pranzo della casa dove viveva da bambino. Appoggiata sul cavalletto, il sellino marrone, le manopole azzurre.

La visione si arricchiva di nuovi particolari, ora vedeva la carta da parati con i fregi verde pallido, il piccolo mobile che racchiudeva tutte le foto di famiglia, ordinatamente disposti in tre album con la copertina damascata.

Sentiva perfino la voce di sua sorella, morta da molti anni e allora bambina, ancora in grado di provare gioia per qualcosa.

Era il regalo della Befana. A casa sua non arrivava Babbo Natale, ma la Vecchia Signora Sulla Scopa. Era lei che portava i doni ai bambini buoni.

La notte aveva sentito suo padre montare la bicicletta e sua madre supplicarlo di far piano, di non rovinargli la sorpresa.

L'aveva chiesta lui. Ma non la voleva. Però, gli sembrava che fosse la cosa che dovesse chiedere un decenne, maschio. O almeno, che i genitori se lo aspettassero. Lui non voleva deluderli.

Mentre moriva, quindi, non stava evocando una gioia incontenibile, un ricordo straordinario e meraviglioso, ma un’incapacità, l'impossibilità di chiedere quello che voleva davvero per regalo, che non ricorda più ma che è sicuro non fosse la bicicletta.

La scena si allarga ancora, si rivede bravissimo a ridere come in preda a una felicità incontenibile, attento a mostrarsi stupefatto e incantato.

Non deve andare così, pensava, stavolta devo avere quello che voglio, devo dire l'ultima cosa, quella necessaria.

Ma non c'è nulla da fare, si vede montare sulla bicicletta, fare un goffo giro per la sala da pranzo, si vede scivolare coi pedali e suo padre che lo sorregge con il lieve dispiacere di chi vede un figlio così diverso da sé. Non riusciva a pensare ad altro.

Mentre moriva, sua figlia Giulia si avvicinava alla sua bocca. Mentre moriva le sussurrava qualcosa. Mentre moriva, la ragazza sentì bene le sue parole.

"Non mi ricordo una volta che non mi sia stato meno che vicino."

Ha il viso rosso, Giulia, ha bevuto troppo. Sono scivolati nei racconti sui genitori senza neanche accorgersene. Roberto la guarda senza fiatare, aspetta che lei ripeta quello che gli ha ha detto la prima notte che hanno dormito insieme.

Gli altri, intorno, quattro o cinque bei trentenni in corsa, maschi e femmine, risoluti e presuntuosi, amici, aspettano con un gran sorriso stampato in faccia che lei racconti la storia, fino in fondo.

"Lo adoravo, letteralmente. Lo sanno tutti che il primo uomo, per una ragazza, è suo padre."

Ridono forte, ma non è una battuta. Roberto, che combatte da anni col fantasma del genitore, annuisce sorridendo.

"Per questo, mentre moriva, gli sono andata vicino, pensavo che toccasse a me stargli accanto. Stavolta." S'interrompe, un'ombra le passa sul viso acceso. "Mi ha parlato."

Guarda il tavolo, improvvisamente il locale sembra ammutolire. Le ultime parole di un morto sono sempre degne di estrema attenzione. Non si ha più nulla da perdere, alla fine. Si dice la verità. Chi non vuole ascoltarla?

"Scusami, scusami, questo ha detto.”

Il silenzio diventa se possibile ancora più profondo mentre aspettano che prosegua. Ma Giulia sembra incantata, continua a scuotere la testa con un sorriso addolorato. Roberto le prende la mano sotto il tavolo. Ma la ragazza la ritira, vuol esser sola.

Una delle amiche, la meno sensibile “Poi?”, dice.

“Niente. Gli ho detto: “Ma di che, papà?" Sta per piangere, ha davvero bevuto troppo. "No, forse non ho risposto, non ho fatto in tempo." Roberto le accarezza il viso. Stavolta Giulia lo lascia fare. "Chissà che voleva dire", le dice piano.

"Sì", conclude Giulia, tirando su col naso, "chissà."

Non può andare avanti, sarebbe lungo e inutile. Non sopporta l’idea di ascoltare la sua voce che spiega chi fosse suo padre, cosa sentisse, cosa volesse dire. Potrebbe sembrare banale, o eccessivo, e forse sbagliato.

All’inizio non riusciva a smettere di pensare a lui. Il ricordo la strappava a quello che stava facendo, mentre guidava o studiava, come una ventata improvvisa e irresistibile, ma anche consolante. Avvertiva un’improvvisa vicinanza, come se non fosse morto, non fosse scomparso, come se girando la testa avesse potuto vederlo accanto, con quella sua faccia appuntita e il sorriso indifeso.

Non appariva col viso sofferente degli ultimi giorni, le guance scavate dalla malattia e gli occhi grandissimi, spaventati. L’immagine che le si presentava era una foto di quando aveva quarant’anni, sempre sorridente, ma di un’intensità attenta e partecipe alla bimba che aveva in braccio, lei, a sei mesi.

Pian piano, era riuscita a ricostruire l’istante esatto in cui quella foto era stata scattata, le braccia delicate di lui, il suo odore di sigaretta. Poco importa che non potesse ricordare perché troppo piccola, sa che era stato quello il momento, il sole d’inizio primavera, il vestitino bianco che le tirava sulle braccia.

“Siamo dei gran rammentatori”, le aveva detto un giorno, “nessuno ricorda le bugie come facciamo io e te.”

Si riferiva ai racconti che gli faceva, da piccola, della giornata appena trascorsa, di come lei fosse in grado di negare perfino quello che era accaduto mentre suo padre stesso era presente, pur di rendere il passato, anche quello così prossimo, più bello, più grande, più stupefacente.

Si arrabbiava quando lui negava che le cose fossero come lei raccontava, finché lui mentiva a sua volta e le diceva che aveva sbagliato, era andata proprio come aveva detto.

Lei si calmava, anche perché convinta di aver detto la verità. Ma era proprio questo, avrebbe capito più tardi, che faceva di lei e di suo padre dei gran rammentatori.

Le stampava dei gran baci sulla faccia, allora, che le davano fastidio e che adesso avrebbe dato qualunque cosa per risentire sulla pelle.

O forse no, non la baciava, era un’altra delle bugie che lei e suo padre riuscivano a raccontarsi.

Il tempo aveva fatto giustizia dell’arroganza di quelle apparizioni, del loro essere incontrollabili. Ormai ricordava suo padre solo quando lo desiderava, con un atto cosciente e volontario. Sempre meno.

Tornando a casa, stabilisce che almeno Roberto debba sapere cosa volesse dire suo padre con quegli scusami sussurrati con decisione, con la volontà che quelle parole restassero, di lui.

“Voleva dire che non aveva nulla da dire, nulla da lasciarmi.”

Roberto gira appena lo sguardo dalla strada che fissa mentre guida, per farle avvertire che ha tutta la sua attenzione.

“Ti adorava”, risponde.

Giulia guarda il suo profilo, che le è tanto caro, e pensa che non resteranno insieme tutta la vita, anche se lo desidera. Eppure, non ha detto nulla di male, di strano, forse una frase d’occasione, ma detta in buona fede, senza nessun scopo ulteriore. Ti adorava. Un fatto che dovrebbe darle maggior calore.

Ma non le è mai stato così lontano, non ha mai avvertito così distante tutto e tutti, non si è mai sentita così sola.

Mentre moriva, suo padre si scusava che prima o poi sarebbe accaduto e che non le aveva insegnato a sopportarlo.

 

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