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martedì 30 agosto 2011

Alla fine

Un medico solido ed esperto mi ha detto, su una delle ultime spiagge di quest'estate declinante, che gli è venuto il dubbio che il tentativo di salvare a ogni costo persone molto anziane in pessime condizioni, con capacità intellettuali e deambulatorie estremamente ridotte, con autosufficienza assente o quasi, debba essere circoscritto da regole chiare, onde evitare lo sconfinamento nell'accanimento terapeutico.
Ho ricordato una notte in ospedale con mio padre. Si è addormentato alle tre, aveva un tumore ai polmoni, non poteva più muoversi da solo. Le gambe gli dolevano in modo insopportabile e il mio massaggiarle, che ho protratto per molto tempo, gli ha dato, alla fine, un paio d'ore di riposo.
L'ho visto abbandonato nel letto della camerata dove mi era stato concesso di accompagnare il suo sonno, magrissimo, il volto distorto dalla malattia, e ho pensato che se fosse bastato premere un pulsante per mettere fine alle sue sofferenze, l'avrei fatto.


Ma non c'erano tasti così efficienti a portata di mano e il mio desiderio era, quindi, puramente teorico. Ne ho avuto paura, fra l'altro, incapace di distinguere fra la mia e la sua esasperazione.
Mio padre è scomparso, venti giorni dopo, in maniera naturale, si fa per dire, soffocando fra sangue e terrore.
Siamo rimasti d'accordo, io e il medico, che se dovesse capitare a noi non vogliamo neanche un istante in più di una vita menomata, men che piena, dignitosa. Bisogna finire con grazia, abbiamo detto, senza che nessuno si ostini a tenerci in vita.
C'eravamo seduti, mentre parlavamo, e giocherellavamo con la sabbia sul mare cristallino della costa ionica.
Quando l'illustre clinico mi ha salutato, ho pensato a quei venti giorni che mio padre ha vissuto dopo il mio pietoso pensiero omicida, il pensiero di un figlio che adorava suo padre e che non voleva che lui finisse come poi è finito.
Ho cercato di ricordare cosa potrebbe essere stato bello, in quei venti giorni, irrinunciabile, a fronte di una futura morte così atroce.
Ha voluto rivedere, per l'ennesima volta, "Delitto perfetto" di Alfred Hitchcock, e alla fine si è voltato verso di me e ha detto, a fatica, ammirato: "Che grande regista."
Non credo che la bellezza del film abbia compensato la violenta morte di mio padre. Ma non ne sono sicuro.
Né sono certo di essere lucido nel preferire una fine dignitosa a una vita gravemente menomata, mentre io e il medico veniamo scaldati dal sole di fine agosto. Non so se si può rinunciare a un film che si è molto amato, per morire nel sonno.
Non lo so, davvero. Però vorrei decidere se farlo o no. Io, da solo.

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