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venerdì 19 agosto 2011

Il mantra di Leo


Abbiamo deciso di pubblicare questo post, vistosamente più lungo degli altri contenuti in questo blog, per due motivi:
Primo: l'ha scritto e inviato Alfredo (vedi post Airone);
Secondo: siamo fieri di ospitarlo.
Quindi, riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Leggetelo fino in fondo, ne vale la pena.

"In Teatro ho avuto due Maestri: Vittorio (Gassman) e Leo (de Berardinis).
Del primo conservo gelosamente una lettera, che non ho mai fatto leggere a nessuno. Del secondo, con il quale ho a lungo lavorato, custodisco alcuni piccoli segreti. Leone de Berardinis è morto il 18 settembre 2008, dopo 7 anni di coma vegetativo. Durante quel periodo scrissi questo articolo per un convegno che portava il suo nome. Poi, come in trance, lo lessi in pubblico...

Il mantra di Leo

E’ da un po’ di tempo che penso ad un film sulla vita di Leo. Sono convinto che raccontare la sua vita (pubblica e privata), potrebbe essere un modo per raccontare la nascita del nuovo Teatro Italiano, e quindi la nascita di una nuova Cultura: parafrasando Pasolini, il titolo ideale potrebbe essere “Una disperata ilarità”. Perchè Leo era (ed è) un uomo terribilmente divertente.
Per ragioni personali ho studiato questa strana dimensione chiamata coma. Fulvio De Nigris, della Casa dei Risvegli, sostiene che è una sintomatologia (insieme di patologie) che riguarda la persona, e come tale deve essere curata.
Per ragioni familiari ho frequentato per 8 anni il reparto di rianimazione dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Cosa pensa una persona in coma? Dove va la sua mente? La mente di un uomo terribilmente divertente.


L’inizio del film sarebbe lo sviluppo di un’ipotesi. L’ipotesi di quello che Leo stava per progettare se non fosse stato bloccato dal coma, o forse, o meglio, l’ipotesi di quello che lui sta progettando adesso, mentre noi parliamo. Io penso che Leo avrebbe progettato un’opera video-cinematografica, un nuovo film. Risaliamo al 1998: durante la trasposizione video di “Totò principe di Danimarca”, commissionata dalla RAI, Leo, dopo pochi giorni, protestò il direttore della fotografia, ed il lavoro fu portato a termine da un tecnico di Bologna, Roberto Danesi. (Roberto mi ha confidato che il rigore di Leo era molto... “cinematografico”, e per questo interessante ed inconsueto). In seguito, durante il montaggio, Leo non era soddisfatto dei tagli, delle sequenze, e così chiese ad un altro montatore (non al montatore che in un primo tempo aveva chiamato), di affittare per una giornata una sala di montaggio. Il secondo montatore si chiamava (e si chiama) Fabio Bianchini. E così Leo e Fabio si ritrovarono (“in segreto”) in una fredda giornata tra Ottobre e Novembre del 1998, in una sala umida e priva di riscaldamento di via Orfeo. Alla fine, dopo 5 ore di lavoro, esausto e congelato, Leo rinunciò: avrebbe voluto cambiare, in una sola giornata, tutti i tagli che il regista RAI aveva fatto in giorni e giorni di riprese...! Ora la domanda è: cosa diavolo stava cercando Leo? (perchè il taglio delle riprese era stato precedentemente concordato, così come il montaggio) Di cosa si era accorto? E cosa aveva visto, che a tutti gli altri era sfuggito? Leo salutò Fabio e ribadì che se avesse potuto avrebbe cambiato tutto: “Sarà per un’altra volta!”, disse, poi si accese l’ennesimo sigaro e se ne andò. Questo il racconto di Fabio. STOP.
Indietro tutta.
Flashback. 1988.“Novecento e Mille”. Siamo in scena a Milano. Lo spettacolo sta finendo: ora c’è il monologo di Leo. Da Eduardo a Pasolini: “...Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?” Ricordo che in quel momento il tempo si fermava, e noi attori, ogni sera, stavamo ad ascoltarlo da dietro le quinte: tutto quello che so sul teatro, l’ho imparato ascoltando quel pezzo. In quel monologo c’era tutto, c’era il jazz, c’era la musicalità di certi accordi, c’erano i sigari di Leo, i suoi tanti caffé, le sconfitte della sua vita, la bellezza amara della sua voce, le sue fidanzate, il Teatro con Perla, sua figlia. C’era un mondo intero, e il tempo si fermava. E lui recitava quel pezzo come se fosse un mantra: una cosa sacra che s’impara a memoria e poi si tiene sempre con sè.
Nella messinscena di “Novecento e Mille” c’era un’altra cosa che mi entusiasmava: il montaggio delle scene, per nulla teatrale, era molto vicino al montaggio, al linguaggio, cinematografico. C’erano dissolvenze ed assolvenze, e la luce era fondamentale. A volte era più fondamentale degli stessi attori. Le lunghe prove che Leo faceva con Maurizio Viani lo testimoniano. E anche quando il taglio era perfetto, e la luce scolpiva la scena, Leo continuava a guardare, a scrutare il palcoscenico, come in trance, sorseggiando decine di caffè, e accendendosi un sigaro. “Ma cosa cerchi, Leo?”, una volta gliel’ho anche chiesto. La risposta fu sublime: “Don Alfrè, cerco...un altro caffè. Questo è finito. Me lo porteresti?”
Era come se lui vedesse, sulla scena, cose che nessuno di noi riusciva a vedere. E poi, in un secondo tempo, durante lo spettacolo, quelle stesse cose diventavano visibili a tutti: quello che non poteva essere detto, diventava visibile senza bisogno di essere scritto: e questo, se ci pensate, è un miracolo. Cominciavo a capire quella frase che un vecchio amico di Leo continuava a ripetere: “Accadono solo i miracoli. Tutto il resto è scontato”. Il vecchio amico era Carmelo Bene.

Avete presente un direttore della fotografia in un set cinematografico? Quanta cura mette per illuminare e preparare la scena, senza perdersi nella luce che taglia i volti degli attori, o nei paesaggi che a volte riflettono la luce del sole e a volte no? Come se stesse sempre pensando ad una cosa sola: a come dovrà essere impressionata la sensibilità della pellicola, o, a secondo dei casi, della camera digitale. Leo era così: come se dentro di lui ci fosse una pellicola da 1600 ASA, e fino a che questa pellicola non si impressionava, non si illuminava, la prova luci non finiva, e le prove con gli attori andavano avanti fino a notte inoltrata, perchè con Leo, il tempo, appunto, non esisteva, o meglio, tornava ad essere quella variabile che in effetti è sempre stato, indefinito e indefinibile, come il suono di un mantra.
Un mantra per Leo, da recitare sottovoce, ogni volta che la sua assenza ci illumina, e che il passaggio dei suoi pensieri ci sfiora. “...’o Mantra”, come diceva quest’uomo terribilmente divertente, quando mi prendeva per i fondelli.
“Tayata om Gate Gate Paragate Parasangate Bodhi so ha”
dal sanscrito: “Andato, andato, andato più in là, andato oltre, illuminato.”


Alfredo Caruso Belli

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