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martedì 13 dicembre 2011

Narcisismo


Improvvisamente, ho capito la mia difficoltà a fare l'attore cinematografico o televisivo. Ha a che fare con il narcisismo di cui ogni attore dev'essere dotato. Deve.
Quest'agnizione mi ha colpito qualche anno fa. Pensavo che interpretare non fosse un atto narcisistico, non fosse un'esibizione, ma una missione, piuttosto, per la quale fosse necessario sentirsi adeguato ma non indispensabile. 
Adeguato per avere quella sicurezza indispensabile per recitare, non indispensabile per non trasformare la sicurezza in arroganza espressiva.
Il narcisismo non trovava posto in questa visione dell'attore, anzi la danneggiava.
Forse ero solo più idealista, ma in realtà sono ancora convinto che avessi fondamentalmente ragione.
Ma raggiungendo risultati non eccellenti nelle mie prove filmate, il contrario di quello che mi accadeva e mi accade in teatro, ho compreso che la questione è più complessa.

Odio far perdere tempo per delle mie esigenze, e quindi il cinema mi blocca per definizione. Tutti corrono, tutti non hanno tempo, e non c'è spazio per nessuna ricerca. In soccorso dell'attore, costretto a offrire un'ottima prestazione nel minor tempo possibile, viene in questi casi il narcisismo, il ritenersi superiore al resto del genere umano per il solo fatto di essere dinanzi a una cinepresa, l'avvertire una macchina possente che ruota esclusivamente per mostrare quello che l'interprete fa o dice.
Questa consapevolezza, personalmente, mi schiaccia, in quanto non sono dotato del narcisismo necessario per ignorarla. L'attore di cinema, viceversa, se ne nutre trasfigurandola in una migliore prova della sua arte.
L'analogia con la conduzione della propria esistenza è davvero impressionante. Qual'è, infatti, il punto d'equilibrio fra sicurezza e arroganza? Fra le esigenze proprie e quelle altrui?
Perché in teatro è diverso? Perché si ha maggiormente la sensazione di perseguire il bene comune, probabilmente per le lunghe prove cui ci si sottopone e per la presenza del pubblico in sala.
Ciononostante, credo che perseguire il bene comune non significhi perseguire esclusivamente il bene dell'altro, o degli altri. Essere servitore del teatro, del pubblico, dei miei amici, di mia moglie, di mia figlia, di voi lettori, è condizione necessaria ma non sufficiente per giungere al nostro meglio. Ci vuole coscienza della propria benefica unicità.
È che me ne vergogno anche solo a scriverlo.

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