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giovedì 1 dicembre 2011

Canada uno



Qualche anno fa, in uno dei ciclici periodi di crisi che affascinano e sgomentano i lavoratori del mio settore, ero in bagno, mi facevo la barba. Mattina presto, molto presto, come tutti i giorni in cui accompagnavo (e accompagno) mia figlia a scuola.
Il giornale radio trasmetteva una di quelle simpatiche notizie di colore che, credo, sono necessarie per la completezza dell'informazione di qualunque rispettabile quotidiano. Qualcosa del genere "ora che abbiamo sviscerato la tragedia ambientale, sociale e politica del nostro pianeta, vi lasciamo intravedere una lucina in fondo al tunnel dell'orrore proposto."
La notizia era che il Canada aveva vinto, per l'ottavo anno consecutivo, il premio come nazione in cui c'era la miglior qualità di vita della Terra, sia percepita dai suoi residenti che misurata tramite alcuni parametri obiettivi.
Ottavo anno consecutivo. Rimasi scioccato, credo di essermi tagliato.

Iniziai a fantasticare sulla possibilità di trasferirmi.
Il freddo, certo, sarebbe stato un problema. 
Ma, giracchiando per la Rete, scopro che in quel mondo favoloso gl'indigeni vivono, per la maggior parte dell'anno, in delle luminosissime e spaziose catacombe, autosufficienti e perfettamente agibili, e si avventurano all'esterno solo quando il tepore della stagione lo permette.
Sono un animale da città, mi dico, dei grandi panorami naturali me ne sono sempre disinteressato, non sarà un problema.
La lingua. Lavoro con le parole, sembrerebbe un ostacolo insormontabile. 
Ma con una rimasticatura d'inglese e la traduzione pedissequa dei miei straordinari testi, italiani ma non centrati sull'italianità, sono certo di conquistare il Paese destinato a ospitarmi.
Mia moglie è scenografa e costumista, il suo trapianto sarà addirittura più facile del mio.
Mia figlia andrà dove la famiglia decide di andare. Il bilinguismo le farà un gran comodo.
Tutto fattibile, quindi.

Ma allora, perché sono ancora qui?

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