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mercoledì 23 novembre 2011

Gabriella 451

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.



"Era l'estate del 1978. Avevo da poco compiuto 11 anni. Mio padre ci stava portando in uno dei soliti massacranti viaggi in montagna. 

Partenza: Castelgandolfo, destinazione: Olda, Bergamo. Dieci ore di viaggio affidate ad una eroica 127 di quelle “chenonsenefannopiù”. Alla terza ora di macchina, quando io e mio fratello stavamo cominciando a rimpiangere la scuola, mia madre cominciò a raccontarci una storia. Una storia che noi non conoscevamo perché all'epoca eravamo troppo piccoli per averla vista al cinema: la saga del Padrino. 


Rimettendo cronologicamente a posto tutte le tessere del fluviale racconto, all'altezza di Firenze cominciammo ad ascoltare la discutibile ma  interessante vicenda di Don Vito Corleone, la sua fuga ancora bambino dall'Italia in America, le sua permanenza a Little Italy con la faccia di Robert De Niro, il suo primo omicidio e l'acquisizione di un potere sempre crescente che lo porta a diventare Marlon Brando. Il brusco passaggio di poteri con il mite figlio Michael (Al Pacino) che presa la staffetta anche come protagonista della vicenda si trasformò sotto gli occhi miei e di mio fratello in uno spietato boss pronto ad eliminare il sangue del suo sangue. 

Quattro ore di racconto senza un attimo di sosta o di calo di interesse. Quattro ore in cui mia madre con semplicità e dovizia di particolari, anche truculenti, si trasformò in uno schermo bianco rendendo quella 127 una sala cinematografica ambulante.

Mia madre è (sottolineo il presente perché, grazie a Dio, non è una commemorazione) una delle più grandi raccontatrici che io conosca.

Ed è grazie a lei che ho capito l'importanza delle parole e l'uso spesso sbadato e controproducente che ne facciamo. Metterle insieme per creare qualcosa di evocativo è forse la maniera più affascinante per adoperarle.

Ray Bradbury l'avrebbe amata molto."

 

Andrea Lolli

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