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venerdì 17 febbraio 2012

Notte in ospedale

In ospedale, distesi sull'orlo del sonno, voltando lo sguardo e superando il neon, è facile immaginare che stellata è la notte e che le anime corrono, le lunghe scie d'argento, per poi fermarsi a guardare silenziose questi bipedi attoniti, questi genitori e figli, questi amanti e moribondi. 

Le anime sono alte, immense, se si posassero a terra la loro testa si confonderebbe con le nubi e delle nubi hanno la stessa soffice consistenza. Hanno le braccia aperte, con esse dirigono il loro moto inesausto, guidate da un canto più alto, dalle grida, da una risata.

O dal pianto, che guardano con stupore e con la consapevolezza della sua ineluttabilità, inseguono qualunque fenomeno che significhi per esse la percezione di una realtà che non conoscevano. Perché ogni gioia e ogni dolore è diverso dagli altri che l'hanno preceduto e da quelli che lo seguiranno. Non si può mai conoscere tutto. 

Le anime, poi, dimenticano in fretta.

 

Volano e s'incrociano, non hanno ombra, non hanno orizzonte, per loro l'orizzonte è l'universo stesso.

Non hanno un dio che le punisca o le premi, hanno solo se stesse per compagnia, sono viandanti.

Ricordano, sbiadito, un tempo in cui erano sole e terra e sguardo e sasso e miliardi di altre cose, uomini, donne, animali, miliardi di esperienze che ritenevano indelebili, ormai invece quasi svanite.

La speranza, questa amano. La riconoscono in un gesto più rapido, in un chinare il capo, in uno slancio improvviso. Il bambino cammina lento a testa bassa verso casa, e alza gli occhi e vede lontano e s'avvia più velocemente, e di più, e di più, i suoi piedi non toccano terra, e ancora più veloce, coi polmoni che si riempiono regolari dell'aria tersa del mattino, corre verso il padre che è tornato, lo sa, lo sente. 

Lo spera.

In ospedale, di notte, le anime sono sopra, sotto, intorno.

Ammesso che esistano.

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