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mercoledì 1 febbraio 2012

Cenerentola

Non sono mai stato bravo con i ricordi. Si dice che abbia un'ottima memoria, ma è un'illusione. In realtà i miei ricordi sono tutti distorti, enfatizzati dalla distanza, come per un errore di prospettiva. Sono come un disegno infantile privo di proporzioni, la casa piccolissima e a fianco io, gigantesco, e ancora vicino un fiore, addirittura più alto di me, un sole microscopico che illumina il foglio a quadretti, animali con zampe disposte su un'unica fila, microcefali o macrocefali, genitori con braccia lunghissime e quasi senza busto.

Come da bambino sono stato un pessimo disegnatore, ora sono un ricordatore ancora peggiore. Le mie memorie sarebbero notevoli solo per i tratti favolistici e metaforici, per la capacità di essere credibili ma veri in bassissima percentuale.

Racconto storie da sempre, anche a me stesso. Spero che abbiano un significato, ma ormai mi sfugge, non ricordo neppure perché ho iniziato a raccontarle.

Quando mia madre era viva, nella sequela dell'aneddotica che tutti i genitori hanno sui figli, ripetuta sempre uguale e sempre diversa, c'era un episodio che avrebbe dovuto testimoniare la mia invidiabile intelligenza e che ora vedo come un preludio alla mia futura instabilità mentale.

 

Eravamo in auto, in uno degli infiniti viaggi che compivamo sulla Cinquecento verso il paese dei miei genitori. Mio padre alla guida, mia madre al suo fianco, io dietro. So con certezza quanti anni avessi, perché mia madre era incinta, aspettava mia sorella, e perché era estate. Due anni, il luglio del 1963.

Mia madre raccontava che avevo iniziato a raccontare la favola di Cenerentola, in una lingua solo parzialmente comprensibile e che ero arrivato a quella che secondo me era la scena cruciale: la fuga, a mezzanotte, della sfortunata ragazzina dal ballo del Principe. Ma "ballo" non rientrava nel vocabolario a mia disposizione, quindi dicevo che era "il (incomprensibile) del Pirimpolo".

Ovviamente i miei genitori avevano capito a cosa mi riferissi, ma con quella dileggiante crudeltà che spesso si usa con i bambini per spingerli a cercare il termine corretto, fingevano di smarrirsi davanti al concetto di Pirimpolo. Mi accanii, stupito prima, deluso poi, rabbioso, infine, di avere genitori così ignoranti da non sapere cosa fosse un Pirimpolo. Adottai, narra la leggenda, una serie di giri di parole, fino ad approdare alla definizione de "l'uomo a cavallo che ama Cenerentola".

"Il Principe", disse mia madre, sazia dello sforzo che avevo fatto per essere compreso. 

Pare che risposi, triste e deluso: "No, il Pirimpolo."

È sempre così, per me: le mie storie e le mie definizioni sono più vere della realtà. O meglio, cerco di far aderire la realtà alle mie storie, e non viceversa.

Quindi ho avuto e ho, in fondo, una bella vita.

 

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